Quattro ragazzi, quattro storie (simili) di disagio dei lavoratori moderni .

Il primo è un ragazzo milanese. 32 anni, laureato in scienze bancarie e assicurative con un passato da impiegato di banca. Solo sei mesi fa decide di licenziarsi e accettare la proposta di un nuova impresa finanziaria che gestisce i portafogli azionari dei propri clienti. Il suo compito è quello di far profittare al meglio questi portafogli, indirizzando i clienti verso i titoli più promettenti. Lo sento parlare di stress molto profondo; carico di lavoro inadeguato; preoccupazioni che lo accompagnano anche dopo l’orario di ufficio e stanchezza cronica durante i weekend. Dopo soli sei mesi confessa che sta già pensando di issare bandiera bianca e mollare il lavoro.

La seconda è una ragazza calabrese che vive a Milano, lavora per una società di consulenza. Piegata dalle 11-12 ore al giorno che passa presso le aziende clienti della sua società di consulenza e dalle restanti ore divisa tra taxi, aerei e alberghi poco familiari. Sta pensando di “rivedere le sue priorità e cercare qualcosa di meno stressante”.

Il terzo è un ragazzo che per mestiere impianta piccoli affarini elettronici nei cuori dei pazienti di mezza Italia. È costretto a prendere un aero ogni 2 giorni con l’ansia di non poter mancare all’appuntamento in sala operatoria. Risultato: ha deciso di “resistere” ancora due o tre anni al massimo e poi mollerà il lavoro e cambierà settore.

Ultimo caso, ragazza laureata in fisioterapia che ammette come non riesca a conciliare le aspettative che la vita ha proiettato su se stessa e la realtà che quella vita offre. Ci si aspetta di viaggiare molto, di diventare ciò che si vuole, di realizzarsi, di avere un posto di lavoro ben retribuito per poi fare i conti con il contrario di tutto ciò e restare vittime di quelle aspettative.

Queste brevi testimonianze non vogliono annoiare chi legge, bensì portare alla luce un disagio dei lavoratori che una generazione (quella dei nati tra il 1985 e il 1995) sta affrontando oggigiorno. Ovvero l’incompatibilità di un’idea di invincibilità creata dalla nostra società e un mondo del lavoro stravolto da crisi e innovazione tecnologica.

I tre fattori principali che generano disagio dei lavoratori

Il punto fondamentale per comprendere questo concetto si basa sulla contingenza di tre fattori principali:

1. Le aspettative disattese dei giovani

Sotto il primo punto di vista, come ho avuto modo di sottolineare in alcuni articoli precedenti, credo che i giovani di oggi si trovino ad affrontare un periodo di profondo disagio all’approcciarsi col mondo del lavoro (ovviamente non si tratta di una situazione che riguarda la totalità delle persone in questione).

Si è cresciuti in una società che ha promesso molto e offerto numerose possibilità. Molti ragazzi sono vissuti senza grandi privazioni e con l’idea che tutto potesse essere realizzabile attraverso l’impegno e il talento.

Le possibilità offerte sono state numerose: possibilità di studiare, di laurearsi, di sposarsi o di non farlo, di avere o non avere figli, di cambiare lavoro con frequenza perché più flessibili e così via.

Convivere con un’infinità di possibilità ha creato anche una sorta di attitudine a non crearsi dei limiti  e dei vincoli. Si vorrebbe fare esperienza di tutto e non privarsi di nulla. Così si lasciano aperti tutti gli spazi per essere sicuri di non perdersi niente. Un’opportunità di lavoro, di svago, una relazione. E mentre si annaspa in questo acquitrino di possibilità, gli anni passano. Il disagio dei lavoratori aumenta e diventa sempre più ingombrante il peso delle responsabilità di cui farsi carico e della paura di prendere una decisione sbagliata. O peggio ancora di fallire rispetto alle proprie ambizioni.

Disagio dei lavoratori e incertezza

2. Il mutamento tecnologico del lavoro

In secondo luogo non si può non considerare quanto i lavori stiano cambiando. Le figure legate all’IT sono sempre in aumento a discapito dei lavori più tradizionali. Inoltre i ritmi richiesti da determinati lavori sono sempre più incalzanti, guidati dai driver tecnologici che impongono velocità e risposte immediate.

Anche il carico a  livello di concentrazione e di stress (si veda l’esempio del primo ragazzo) hanno un peso significativo sul totale di richieste fatte da un determinato lavoro che in inglese verrebbe definito high demanding job. Oggi molti lavori stanno virando verso questa tipologia generando un’ineluttabile incremento del disagio dei lavoratori.

Inevitabilmente si dovranno fare i conti con le ripercussioni che questi carichi di stress avranno sulla salute dei lavoratori. Sarebbe dunque opportuno pensare a una riduzione dell’orario lavorativo in virtù di quanto detto specie per i lavori high demanding.

Senza trascurare un’altra nota sempre più importante legata al proprio lavoro: il senso di utilità sociale. Sono sempre di più le persone che ammettono di svolgere un mestiere che non sentono utile nei confronti della società e non in linea con il proprio “scopo” di vita.

Molti vorrebbero mollare il lavoro per trovarne altri in grado di offrire questa possibilità. Invito a leggere dunque l’articolo di Luca Mastrantonio che affronta proprio questa tematica, sulla scorta delle ricerche effettuate dal sociologo David Graeber.

Disagio dei lavoratori che affondano

3. Il distorcimento del mercato del lavoro

Infine bisogna tener presente la rivoluzione che il mercato del lavoro sta subendo. I lavori, come abbiamo detto, si trasformano ma, per certi versi, si riducono anche. È ormai assodato che i posti di lavoro creati dall’innovazione tecnologica sono molto minori rispetto a quelli che la tecnologia elimina. Di conseguenza è sempre più alta la discrepanza tra domanda e offerta di lavoro.

Come osserva il sociologo De Masi nel suo Lavorare gratis, lavorare tutti “per dare un lavoro ai disoccupati basterebbe ridurre di poco l’orario di lavoro degli occupati”. Specialmente in Italia dove il livello delle ore lavorate come straordinari è la più alta d’Europa con 1800 ore lavorate all’anno (in totale) rispetto alla media francese e tedesca di 1500 ore. Quindi una nuova tesi a sostegno della riduzione minima del carico lavorativo come soluzione parziale anche al problema della disoccupazione.


Forse è giunto il momento, anche per i governanti, di cominciare ad aprire gli occhi su una realtà lontana dalle chiacchiere dei palazzi. Tra spread, millesimali di debito pubblico che aumentano e diminuiscono, riforme su pensioni e reddito di cittadinanza si rischia di restare abbagliati da soluzioni apparentemente efficaci ma che non entrano nel merito del problema: il lavoro che cambia, che diminuisce, che va reinventato e riprogrammato nelle sue fondamenta.

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