30 luglio: giornata internazionale dedicata all’amico e all’amicizia.

Ho voluto riportare qui in basso (o almeno ci ho provato grazie al mio spagnolo più che zoppicante) la traduzione di un pensiero del compianto giornalista sportivo argentino Osvaldo Wehbe proprio sulla giornata dell’amico.

Sul canale Youtube di Pasiòn deportiva, il cronista sportivo ci incanta con degli splendidi ricordi di gioventù, quando amicizia significava fratellanza o meglio ancora fraternità.

In un ricordo dolce come la sangria, Wehbe ci prova a raccontare il significato dell’amicizia secondo lui, in immagini di polverosi campetti di periferia o di popolosi quartieri della città di Cordoba.

A voi amici appassionati di calcio:

Sento il rumore del pallone: compagnia, silenziosa e fedele compagnia. Il silenzio più gradevole della vita, un buon silenzio, privo di borbottii isterici. Quel silenzio di chi sa di essere accompagnato da qualcuno, senza avere la necessità di parlare tanto per parlare: questa è la scenografia di un paio di amici.

Quasi sempre uno dei due poggia il braccio sulla spalla dell’altro, per appoggiarsi e sostenersi. Pronto ad ascoltare una confessione intima, a porgere un fazzoletto per asciugare qualche lacrima.

Tutto nasce per istinto, senza necessità di seguire un copione predefinito, tutto per il semplice impulso dell’affetto per l’altro. E i due amici se ne stanno lì, sostenendosi l’un l’altro, senza doverlo mostrare a tutti con manifesti e cartelloni oppure pubblicarlo sui social media: con l’amico vicino tutto diventa più semplice.

È come se ci fosse una grande distanza, inclusa quella che va da quaggiù sino al cielo, che si riesce a colmare semplicemente col pensiero dell’amico, con l’idea di abbandonarsi a quel sentimento per sentirsi un pochino migliori. Non sarà di certo un sentimento estremamente ampio, ma di certo ben saldo.

Così, il rumore del pallone, alle tre meno un quarto, era come un richiamo d’amore, un campanello, una convocazione unica e indimenticabile.

Oggi, molti di quei ragazzi saranno sicuramente delle mezze calzette nel gioco del calcio o addirittura non giocheranno quasi più ma, allora, ognuno di loro sentiva il rumore del pallone rotolare giù per le strade del proprio quartiere e nel mezzo del riposino o del pranzo si sentiva attratto dalla palla come dal suono del Pifferaio Magico di Hamelin.

Noi amici ci abbracciavamo, salutandoci con una pacca sulla spalla e, come in una processione meravigliosa e sacra, ci dirigevamo verso il campetto del quartiere.

Quello era il rito che precedeva il gioco. Poi veniva la partita, qualche litigio, alcune discussioni, sentire sempre l’urlo «era palo!» e, si intende, il palo non era altro che un cumulo di magliette e stracci vecchi, e ancora «era alto!» «No, era gol!».

Poi la cerimonia che seguiva la partita: da quando uno ha sei anni fino a quando diventa un veterano, il rito è stato sempre lo stesso: una bevuta a turno, la sangria, la birra, il mate, le chiacchiere e il trambusto per decidere chi dovesse pagare quel singolo giro. E ancora parlare della leggenda del portiere che aveva subito il maggior numero di reti nella storia del quartiere, prendere in giro il ragazzo più piccolino, quello più scarso o quello più snob, quello fighetto che portava i capelli aggiustati e la maglia pulita dentro il pantaloncino, che pareva quasi camminare in punta di piedi nel campo, provando a realizzare gol difficilissimi di tacco o di rabona, per poi sbottare con i compagni: «voi di calcio non capite nulla! Siete dei cavernicoli buoni solo a fumare e tirare la pipa!»

Accarezzo ancora il ricordo dei momenti dell’incertezza, quando non si sapeva in che campo si sarebbe finiti a giocare l’indomani, o addirittura se si sarebbe giocato proprio: magari mancava qualcuno e non si arrivava al numero giusto per giocare a calcio e allora si decideva di trasferirci in un bar per ascoltare alla radio le partite delle leghe maggiori.

E poi l’immancabile scenata per le uscite notturne dei nostri compagni, in special modo quando la nostra punta mancina si era invaghita di una ragazza del quartiere. Prontamente arrivava il commento secco del numero 5: «Nooo! Non ti conviene! Questa tipa vuole solo usarti ragazzo mio!» Una teoria ben delineata che esprimeva più la paura di perdere il proprio laterale mancino, introvabile il sabato pomeriggio, che la reale preoccupazione per le intenzioni della ragazza.

E ancora, il frequentare lo stadio nella tribuna popolare o in curva, a seguire il Tallares o il Belgrano e ammirare la curva degli avversari riempirsi di un manipolo di pazzi irriducibili che avrebbero seguito la propria squadra dappertutto e sapere che lì, proprio lì, si trovava l’amico, nonostante si trattasse di una piccola squadra senza alcuna velleità. Così, per me, dire amico significa dire calcio e vice versa. Però il calcio, sicuramente significa mettersi in processione seguendo il rumore del pallone e preparandosi per un’altra cerimonia che si perpetua nel tempo.

Perché quando sei dietro quel pallone che rotola, con l’amico al tuo fianco, tutto ciò che desideri è che quel momento possa non terminare mai.

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