Ciao! Mi chiamo Marta. Quasi trentenne in crisi, affannata nella mia personale ricerca di un posto nel mondo della crisi globale.
Sai (eh sì, ti do del tu, tanto il lei è superato ormai), circa dieci anni fa mi sono iscritta all’università, studiando marketing e comunicazione aziendale.
I miei studi
Vedi, ho deciso di seguire le mie passioni e così, nell’arco di tre anni, mi sono laureata con il massimo dei voti. Tra libri fotocopiati e progetti di gruppo da sottoporre ai professori è cominciata a serpeggiare tra le aule una parola funesta, che da allora accompagna la mia vita: crisi.
A poco a poco questa parola ha cominciato ad essere centrale in moltissime lezioni. I professori, come i telegiornali, hanno continuato a dire che sarebbe passata nell’arco dell’anno successivo. Poi, puntualmente, un comunicato della BCE o di qualche temutissima agenzia di rating confutava tutto dicendo che l’anno seguente sarebbe stato il peggiore dal 2008.
Così la laurea triennale non è stata più sufficiente e ho continuato i miei studi con la specialistica. L’uscita del tunnel è sempre sembrata dietro l’angolo secondo i media. Invece, anche nei due anni successivi non ho sentito parlare altro che di spread, rendita dei BOT, disoccupazione giovanile, fuga dei cervelli, Italia Paese immobile.
A mia sorella, allora studentessa di quinto liceo, è stato detto di non seguire le sue passioni per la scelta dell’università, bensì una facoltà che avesse buone opportunità di “occupare” gli studenti dopo la laurea.
Le skill del trentenne in crisi
Durante la specialistica ho assistito anche a qualche corso di orientamento organizzato dall’ufficio tutorato. Ogni volta ciò che ne veniva fuori è stato sempre chiaro e palese: abituarsi al lavoro flessibile, essere disposti a trasferirsi anche all’estero, cominciare a pensare ad un lavoro da casa (o da remoto), pensare in un’ottica di freelance o consulente che per me fa lo stesso. Ci hanno detto che il mercato del lavoro italiano si stava apprestando a diventare come quello americano: “nessuno lavorerà più per una sola azienda nell’arco della sua vita”, siate pronti a cambiare, siate flessibili, flessibili, flessibili ma non dovrete spezzarvi!
Tutti a sottolineare quanto fosse importante lo sviluppo delle nostre skill. A dirci di diventare multi-tasking perché ormai il lavoro specializzato e unidirezionale è morto. A elogiare l’IT e le tecno-aziende. Tutti a riempirsi la bocca con la parola start-up. Nessuno a dirci a quanta incertezza stavamo andando incontro.
Ebbene dov’ero rimasta? Ah già, mi sono laureata (specializzata…ma non dovevo diventare multi-tasking?) con il massimo dei voti e indovina? Stage trovato grazie all’università a quattrocento chilometri da casa. Per sei mesi ho lavorato gratis (o quasi, per lo meno ho avuto l’alloggio pagato dall’azienda) per una società operante nell’editoria. Quasi ogni giorno ho fronteggiato colleghi stufi di quel mondo, che non hanno fatto altro che parlare di come fosse bello il lavoro prima della crisi, di quanto si guadagnasse bene, di come ci fosse “posto” per tutti.
Ho finito lo stage, l’azienda mi ha detto che avrebbe “messo qualche dipendente in cassa integrazione, figurarsi se c’era posto per me”. Eccomi di nuovo a essere una trentenne in crisi.
Mi sono detta: meglio cercare altrove. Ho mandato curricula ovunque, mi sono candidata presso tutte le agenzie interinali del pianeta, ma niente.
Mi hanno detto che ero senza esperienza, troppo qualificata, troppo poco qualificata, troppo donna, troppo laureata in qualcosa di inutile, troppo poco specializzata senza un master.
Qualcuno ai piani alti mi ha detto che sono choosy perché non ho accettato il lavoro di ragazza consegna-volantini. Qualcun altro ha detto che appartengo ad una generazione di sfaticati.
Ed io, da buona sfaticata, mi sono presa anche un master.
Altre esperienze lavorative “liquide”
Ho lavorato per quasi un anno presso un’agenzia di marketing. In particolare social media marketing, settore che qualche anno fa è letteralmente esploso. Di contratti però nemmeno l’ombra. O meglio, di contratti che durassero più di tre mesi “e poi vediamo”. Così ho mandato al diavolo quelli dell’agenzia.
Avevo bisogno di denaro e così ho seguito un corso da barman (barwoman direi!). Sì dai, quello o quella che preparano i cocktail. Con quel “brevetto” sono riuscita a lavorare per un po’. Qualche ammiccatina del gestore del bar e un contratto del tipo “ti firmo 600€ e te ne do altri 200 fuori busta, cioè in nero”. E io ingoio il boccone.
Ho cambiato locale. È cambiato il contratto: “ti firmo la busta paga per 1200€, poi ne ritiri 400 e me li porti indietro domani”. Così, tanto per procurarsi un po’ di denaro in nero, bello ripulito da me. E allora dopo qualche mese al diavolo anche i locali, tanto “sai quanti ne trovo come te!?”.
Ho ripreso a lavorare con un’altra agenzia, perché la crisi comincia a mordere in maniera sempre più dura, ma tranquilli perché dicono che passerà.
Sento, però, che qualcosa in me è cambiata. Sarà stato il lavaggio di cervello degli ultimi anni ma non sono riuscita ad affezionarmi minimamente alla nuova agenzia , anche se il lavoro che faccio mi piace. Ma la vedo solo come un do ut des. Io porto a termine un progetto e tu mi paghi. Poi se voglio me ne torno al mio non-lavoro da casa.
Mi sento plasmata dalla forza dell’incertezza che mi spinge a cercare una nuova esperienza.
Forse me ne andrò all’estero, cercherò di migliorare le mie skill per avere maggiori competenze da rivendere. Forse il capo non mi riterrà affidabile. Ma in realtà chi è a non essere affidabile? Un Paese che definisce il proprio sistema lavorativo in trasformazione ma non riesce ad accettare le forme flessibili tanto invidiate agli USA o io? Il datore di lavoro che ti tiene sulle spine ogni tre mesi o io? Un ministro del lavoro di dubbia professionalità e moralità che spara a zero sui giovani o io? Uno Stato che vede partire migliaia di giovani ogni anno senza formulare la benché minima proposta per sovvertire questo trend o io?
No, ti prego dimmelo, perché su queste domande partono i miei mille rovelli mentali che mi tengono sveglia la notte e che mi avvicinano sempre di più ai canguri e alla raccolta dei broccoli in Australia, dove almeno riesco a mettere qualcosa da parte senza mercanteggiare con un datore di lavoro furbetto e delinquente.
Mi sento amareggiata, sbattuta, confusa. Ma voglio camminare con e sulle mie gambe e per questo dirò addio a questo Paese, con una profonda nostalgia e un senso di rabbia che continueranno a bruciare nel mio stomaco. Io, trentenne affannata nella ricerca del mio posto nel mondo…della crisi globale.
La storia di Marta è una storia inventata (o forse no) catturata negli sguardi insicuri di una generazione che si accinge ad affrontare un mondo lavorativo sempre più liquido e dematerializzato. La generazione del trentenne in crisi.
Nel frattempo il Belpaese se ne sta a guardare e continua a viaggiare come un enorme, vecchio, stantio, putrido carrozzone che arranca sbuffando nel oceano rosso della crisi globale.
Agosto 29, 2017 alle 10:31 pm
non credo proprio che sia una storia frutto di fantasia,
ci saranno ragazzi a centinaia (a dir poco) che potrebbero riconoscersi in questa narrazione (master più, master meno),
la cosa drammatica è che chi determina le sorti del mondo vuole sia così ed i politici son solo ‘loro’ servitori …
non vedo tanto rosa all’orizzonte
ciao 🙁
Agosto 30, 2017 alle 9:23 am
Non vedo come darti torto Claudio. Stiamo andando a sbattere contro un muro ad altissima velocità, ma sembra che nessuno sia in grado (o abbia la volontà) di accorgersene e cambiare rotta.
Settembre 4, 2017 alle 12:34 pm
Di fronte a questo articolo hai due possibilità o l’abbandono angoscioso ad un futuro determinato da altri (politici, leggi, datori di lavoro, ecc) o accetti il rischio di un salto nel vuoto … prendi tutti i tuoi risparmi (o quelli dei tuoi genitori) scegli una nazione che per esperienza di amici e di “sentito dire” funziona e vai via dall’Italia. .. questo è il futuro che possiamo costruire.
Settembre 4, 2017 alle 12:44 pm
Questo è il futuro che cercano di modellare per noi. La soluzione “estero” oggi appare tra le più semplici e già questo la dice tutta. D’altro canto però credo che ci sia una terza strada, sicuramente la più difficile e utopistica: cercare di cambiare le cose dall’interno, magari facendo capire ai politicanti di turno che questa popolazione ha la voglia di non farsi plasmare secondo il loro volere.