Pensando all’incertezza del futuro nel vocabolario Treccani si può leggere sotto questa parola:
“Stato più o meno passeggero di dubbio circa la verità di qualche cosa o i futuri sviluppi di una situazione”.
Una definizione quanto mai adatta al contesto di una generazione triste, quella dei nati tra la metà degli anni ’80 e i primi anni ’90.
Una realtà in cui l’incertezza diviene assioma e si fa materia che permea un’intera generazione al punto da entrarci dentro e restare attaccata alle nostre ossa.
Incerto è il futuro, incerto è il lavoro, incerte sono le relazioni.
Una generazione cresciuta a pane e “sogna ciò che vuoi perché lo potrai realizzare”. Il tutto subito smorzato da “accontentati di qualsiasi lavoro perché c’è crisi”.
E allora siamo stati cullati prima dall’idea del posto fisso e di una sogno italiano da raggiungere per ritrovarci sospinti ad allungare la mano e prenderci ciò che volevamo, a viaggiare, a essere la generazione Erasmus, a farci l’abitudine al lavoro flessibile.
Siamo stati cullati in un limbo di possibilità dove ogni cosa è realizzabile, dove tutto sembra vicino ma diventa irrimediabilmente lontano.
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E ci siamo talmente abituati all’idea dell’incertezza del futuro, della precarietà, che quasi quasi l’idea di un posto fisso comincia a farci paura.
L’idea di sacrificare la propria vita dietro una cassa di un supermercato ci tiene svegli la notte. Ma come, ci hanno insegnato a viaggiare, a essere flessibili, a prendere 600 euro al mese e adesso baratto questa precarietà con la mia vita dietro quella cassa?
E così che si avvia un processo perverso, alla ricerca della goduriosa incertezza. Come un bambino che non sa resistere a grattarsi via le crosticine per vedere la ferita sanguinare di nuovo, così ci teniamo immobilizzati nella nostra incertezza, perché ormai ci siamo abituati.
E guai a pensare di avviare un progetto di vita, una famiglia, un figlio. Responsabilità troppo più grandi del vittimismo che ci offre gratuitamente l’incertezza del futuro.
L’incertezza liquida
Tutto è incerto, tutto è liquido. Liquido perché l’ignoto è davanti a noi. Un futuro che non si materializza perché è inimmaginabile programmarlo. Dove gli obiettivi a lungo termine delle aziende sono inquadrati nell’arco temporale di un anno al massimo. Un futuro che non ci dà la possibilità di immaginarlo perché appena ci si ferma a pensarlo esso è già cambiato.
Tutto è liquido, tranne la solida mazza della realtà che arriva a colpirci sui denti nei momenti in cui cerchiamo di allontanarci da quell’incertezza: bollette da pagare, mutui da estinguere, tasse da versare, responsabilità di cui farsi carico.
E allora cominci a pensare che quello “Stato più o meno passeggero di dubbio circa la verità di qualche cosa o i futuri sviluppi di una situazione” non sia più così tanto passeggero.
Questa è la generazione dell’incertezza che genera disagio. Crea un vuoto che a tratti sembra incolmabile ma che in fin dei conti, una volta fattaci l’abitudine, potrebbe quasi cominciarci a piacere.
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